Giustizia e intelligenza artificiale: il Senato approva il Ddl 1146/24

Il 20 marzo 2025 il Senato della Repubblica ha approvato il disegno di legge n. 1146/24, recante “Disposizioni e delega al Governo in materia di intelligenza artificiale”. Il provvedimento, di iniziativa governativa, ha attraversato un iter complesso, reso ancora più delicato dalla necessità di armonizzarlo con il Regolamento UE 2024/1689 (c.d. “AI Act”), entrato in vigore il 13 giugno 2024.

L’approvazione del testo in Senato è giunta dopo un confronto serrato con la Commissione Europea, che aveva sollevato criticità attraverso il parere C (2024) 7814, trasmesso all’Italia il 5 novembre 2024. Per evitare il rischio di disapplicazione delle norme nazionali in contrasto con quelle europee, il Ddl 1146 è stato adeguato, prevedendo fin dall’articolo 1 che le sue disposizioni debbano essere interpretate in conformità con l’AI Act.

Le norme sull’uso dell’AI nella giustizia

Uno degli ambiti più delicati disciplinati dal provvedimento è quello della giustizia, considerato dall’AI Act come settore ad “alto rischio”. Il tema è regolato dall’articolo 15 del Ddl 1146, completamente riscritto durante l’iter parlamentare e ora articolato in quattro commi.

Il primo comma sancisce il principio antropocentrico, stabilendo che nelle attività giudiziarie ogni decisione su interpretazione e applicazione della legge, valutazione dei fatti e delle prove, e adozione dei provvedimenti spetta esclusivamente al magistrato. Questo principio, in linea con l’AI Act, ribadisce che l’intelligenza artificiale deve essere al servizio dell’uomo e non sostituirsi a esso.

L’articolo vieta inoltre l’uso dell’AI nei processi decisionali giudiziari, impedendo di fatto l’adozione di sistemi di “giustizia predittiva”, ossia quegli strumenti in grado di formulare previsioni sull’esito di un giudizio basandosi sull’analisi di grandi quantità di atti giuridici. Tuttavia, non viene espressamente escluso l’uso dell’AI per la ricerca giurisprudenziale e dottrinale, lasciando intendere che tale impiego sia consentito.

Il secondo comma introduce tre ambiti in cui l’uso dell’intelligenza artificiale è invece ammesso:

  1. Organizzazione dei sistemi relativi alla giustizia;
  2. Semplificazione del lavoro giudiziario;
  3. Attività amministrative accessorie.

La regolamentazione di questi usi è demandata al Ministero della Giustizia. Rispetto alla versione originaria del testo, è stata eliminata la previsione che attribuiva la disciplina dell’AI nelle giurisdizioni amministrativa e contabile ai rispettivi organi di governo (Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa e Sezioni riunite della Corte dei conti).

Il terzo comma stabilisce che, fino alla piena attuazione dell’AI Act, l’impiego e la sperimentazione dell’AI negli uffici giudiziari siano subordinati all’approvazione del Ministero della Giustizia, previa consultazione delle autorità nazionali per l’intelligenza artificiale, ovvero l’Agenzia per l’Italia Digitale e l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale.

Infine, il quarto comma promuove la formazione dei magistrati sull’uso dell’AI nell’attività giudiziaria, inserendo questa tematica nelle linee programmatiche del Ministero della Giustizia per la formazione della magistratura.

Tribunale competente sulle cause AI

Oltre alle disposizioni specifiche per la giustizia, il Ddl 1146 interviene anche sul codice di procedura civile. L’articolo 17 prevede infatti una modifica all’articolo 9 c.p.c., attribuendo la competenza esclusiva al tribunale per tutte le cause aventi ad oggetto il funzionamento di un sistema di intelligenza artificiale.

Dopo l’approvazione in Senato, il disegno di legge è ora all’esame della Camera dei Deputati, dove è stato trasmesso il 21 marzo 2025 (atto n. 2316/25). Considerata la complessità della materia e il suo impatto sulle modalità di esercizio della giurisdizione, l’iter parlamentare si preannuncia intenso e ricco di dibattito.


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Separazione delle carriere, Del Noce (UNCC): “Un dibattito sterile mentre la giustizia crolla”

Mentre il dibattito sulla separazione delle carriere tra magistrati requirenti e giudicanti continua ad accendere gli animi, il presidente dell’Unione Nazionale Camere Civili, Alberto Del Noce, invita a spostare l’attenzione sulle reali criticità del sistema giudiziario italiano.

“Si sta combattendo una battaglia ideologica sul nulla”, afferma Del Noce, sottolineando come la separazione tra giudici e pubblici ministeri sia già una realtà consolidata e che la discussione su questo tema vada avanti dal 1988. “Invece di alzare barricate tra avvocati e magistrati, dovremmo unirci per un obiettivo comune: migliorare la giustizia, che non è né degli avvocati né dei magistrati, ma dei cittadini”.

Un sistema al collasso

Secondo Del Noce, mentre il confronto si concentra su questa riforma, si sta perdendo di vista la vera emergenza: il collasso del sistema giudiziario. “I giudici di pace sono allo stremo, la giustizia cosiddetta ‘bagatellare’ – che in realtà riguarda milioni di cittadini – è in grave difficoltà. Basti pensare che le cause di valore tra i 25 e i 30 mila euro sono state trasferite a giurisdizioni già sovraccariche. Di cosa stiamo parlando, allora?”

Il rischio per l’indipendenza della magistratura

Il presidente dell’UNCC si dice poi sorpreso dall’impostazione del dibattito sulla riforma della separazione delle carriere in ambito penale: “Si alimentano paure e si ipotizzano rischi, ma da civilista io mi attengo ai documenti. E leggendo il disegno di legge approvato dal Senato, non trovo nulla che metta in pericolo l’indipendenza della magistratura”.

Tuttavia, Del Noce non ha dubbi: se un domani l’autonomia dei magistrati dovesse essere realmente minacciata, gli avvocati sarebbero i primi a schierarsi al loro fianco per difenderla.

“Ma oggi, esattamente, di cosa stiamo discutendo?”, conclude.


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Ripetizione dell’indebito: diritto di accesso agli estratti conto bancari

Con l’ordinanza n. 8175 depositata oggi, la Corte di Cassazione ha fornito chiarimenti cruciali riguardo al diritto del cliente di ottenere copia della documentazione bancaria in caso di ripetizione dell’indebito. Secondo la Suprema Corte, l’istanza di esibizione di documenti bancari, prevista dall’articolo 210 c.p.c., deve essere preceduta da una richiesta formale alla banca, come stabilito dall’articolo 119, comma 4, del Testo Unico Bancario (TUB). Il cliente ha il diritto di richiedere copia degli estratti conto relativi agli ultimi dieci anni, ma solo dopo che sia trascorso il termine di novanta giorni dalla richiesta senza che la banca abbia adempiuto.

La decisione nasce dal ricorso di una società nei confronti di un istituto bancario, a causa di presunti addebiti illegittimi legati a interessi non dovuti, spese e commissioni non pattuite, e l’applicazione di tassi illegittimi su un conto corrente aperto nel 1987 e estinto nel 1999. In primo grado, la società aveva ottenuto una parziale accoglimento della sua domanda di ripetizione di quanto indebitamente corrisposto, ma la Corte d’Appello aveva annullato la sentenza, evidenziando gravi lacune nella documentazione prodotta, che non consentivano una corretta ricostruzione dell’andamento del conto.

Nel ricorso in Cassazione, la parte lamentava il mancato accoglimento della propria istanza di esibizione dei documenti, ma la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso, poiché non è stato fornito alcun elemento che attestasse che, prima del processo, fosse stata effettuata la richiesta formale di copia degli estratti conto alla banca. La Corte ha sottolineato che, ai fini dell’ammissibilità dell’istanza di esibizione, è necessario che il correntista abbia già richiesto la documentazione direttamente alla banca, e che siano trascorsi novanta giorni senza che la banca abbia fornito i documenti richiesti.

La Cassazione ha, inoltre, precisato che l’onere della prova incombe sul correntista che agisce in ripetizione dell’indebito, il quale deve fornire la documentazione necessaria per supportare la propria richiesta. Tuttavia, il tribunale ha ribadito che questo onere non è particolarmente gravoso, soprattutto grazie alla gestione online dei rapporti bancari e alla facile reperibilità dei dati.

In definitiva, la Corte ha stabilito che l’istanza di esibizione dei documenti bancari è ammissibile solo se preceduta da una richiesta formale degli estratti conto, come previsto dalla legge, altrimenti si rischia di incorrere in una richiesta esplorativa incompatibile con lo strumento processuale previsto. Pertanto, la società ha visto respinto il proprio ricorso per il mancato rispetto di questa procedura.


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Confisca di Prevenzione: La Cassazione limita i diritti del terzo intestatario

Con una decisione del 27 marzo 2025, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno fornito una lettura restrittiva riguardo ai diritti del terzo intestatario di beni oggetto di confisca di prevenzione. Secondo la sintesi provvisoria della sentenza, il terzo intestatario, qualora i beni siano ritenuti fittiziamente a lui intestati, può solo rivendicare l’effettiva titolarità dei beni confiscati. Non avrà, invece, il diritto di contestare i presupposti per l’applicazione della misura, come la pericolosità del proposto, la sproporzione tra il valore del bene e il reddito dichiarato, né la provenienza del bene stesso.

La questione è nata a seguito di un contrasto giuridico sollevato dalla VI Sezione penale, che si è trovata a decidere un ricorso contro una confisca confermata in appello. In tale caso, i familiari del soggetto ritenuto pericoloso, ritenuti intestatari fittizi di beni immobili e quote societarie, avevano contestato la fittizietà dell’intestazione, sostenendo la loro attività legittima e l’assenza di pericolosità del proposto. La Corte ha quindi rimesso la questione alle Sezioni Unite, chiedendo di chiarire se il terzo intestatario, oltre a rivendicare la titolarità dei beni, avesse il diritto di contestare i presupposti della misura di prevenzione.

Il massimo consesso della Cassazione ha optato per un orientamento che limita fortemente i diritti di difesa del terzo intestatario, adottando una lettura che restringe il campo delle contestazioni. Infatti, secondo la decisione, il terzo può solo dedurre elementi relativi alla proprietà dei beni confiscati, senza poter sollevare questioni sulle condizioni che hanno giustificato l’applicazione della confisca, che possono essere sollevate solo dal proposto.

Si sono presentati, comunque, tre orientamenti giurisprudenziali differenti in merito. Il primo, maggioritario, limita i diritti del terzo intestatario alla rivendicazione della titolarità dei beni, senza possibilità di contestare gli altri presupposti della confisca. Un orientamento minoritario, invece, sosteneva che il terzo potesse anche contestare la fittizietà dell’intestazione e gli altri presupposti della misura di prevenzione. Un terzo orientamento, intermedio, prevedeva un’ulteriore evoluzione, riconoscendo la possibilità per il terzo di contestare esclusivamente i presupposti oggettivi della confisca.

La decisione della Cassazione richiama anche la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 17 giugno 2014, che aveva sottolineato la necessità di garanzie giurisdizionali effettive per i terzi intestatari, nonché la recente Direttiva 2024/1260, che prevede la protezione dei diritti fondamentali dei terzi nell’ambito della confisca in ambito europeo.

In attesa delle motivazioni ufficiali, la sentenza delle Sezioni Unite segna un importante passo verso una lettura restrittiva dei diritti del terzo intestatario, limitando le sue possibilità di difesa e rivendicazione, in un contesto di applicazione della confisca di prevenzione.


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Imputabilità e vizio di mente: la Cassazione chiarisce che la mancanza anche di una sola delle capacità esclude la punibilità

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12283/2025, ha ribadito un principio fondamentale del diritto penale: l’imputabilità di un soggetto è esclusa quando manca la capacità di intendere e volere, anche se solo una delle due capacità è compromessa. In questo caso, la Corte ha annullato la condanna di un imputato accusato di molestie, sottolineando che è necessario un accertamento completo della sua capacità di volere, pur essendo già stata riconosciuta quella di intendere.

L’imputato, infatti, era stato sottoposto a perizia da parte dell’ausiliario del giudice, la quale aveva evidenziato una malattia mentale di tipo paranoide che comprometteva la capacità dell’uomo di resistere agli impulsi. Nonostante ciò, il giudice d’appello aveva confermato la condanna, ritenendo il vizio di mente solo parziale, anche in virtù della sua resistenza a sottoporsi alle cure psichiatriche necessarie.

La Cassazione ha però contestato questa conclusione, rilevando un errore nei ragionamenti dei giudici di merito. Secondo la Corte, il fatto che l’imputato si fosse sottratto alle terapie non poteva giustificare la considerazione di un vizio di mente parziale. Infatti, la perizia aveva chiarito che il disturbo psichiatrico impediva al soggetto di prendere consapevolezza della sua malattia, il che rendeva inutile l’eventuale trattamento terapeutico.

Il vizio di mente, ha affermato la Cassazione, è da considerarsi totale quando una delle due capacità fondamentali (intendere o volere) manca completamente. In tal caso, non è possibile applicare una condanna, poiché il presupposto per l’imputabilità è venuto meno. Questo principio ribadisce che, per escludere l’imputabilità, è sufficiente la mancanza anche di una sola delle due capacità, senza dover considerare fattori esterni come il rifiuto delle cure.


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La prescrizione dei reati commessi nella vigenza della legge Orlando

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8863/2025, ha chiarito l’applicazione della disciplina della sospensione della prescrizione introdotta dalla legge n. 103/2017, per i reati commessi dal 3 agosto 2017 al 31 dicembre 2019. Secondo la giurisprudenza, per tali fatti resta applicabile la sospensione dei termini di prescrizione prevista dall’art. 159, commi secondo, terzo e quarto, del codice penale, anche dopo l’abrogazione della legge da parte della legge n. 134/2021.

Il fatto
La sentenza si origina dal ricorso presentato contro una condanna a due mesi di arresto, con sospensione condizionale, per reati legati alla violazione delle norme sulla caccia. L’imputato era stato sorpreso il 18 ottobre 2018 mentre esercitava pratiche illegali come l’uccellagione mediante reti e l’uso di richiami acustici elettromagnetici, oltre alla detenzione di uccelli selvatici protetti.

La questione giuridica
Il ricorso sollevava la questione della prescrizione dei reati in relazione alle modifiche normative introdotte dalla legge Orlando e dalla successiva riforma Bonafede. In particolare, la difesa contestava che la sospensione dei termini di prescrizione prevista dalla legge n. 103/2017 non dovesse applicarsi ai reati commessi durante l’arco temporale tra il 3 agosto 2017 e il 31 dicembre 2019, in seguito alla modifica dell’art. 159 del codice penale. Inoltre, si invocava l’abrogazione delle disposizioni che sospendevano il corso della prescrizione per i procedimenti di appello e cassazione, sostenendo che le nuove norme fossero retroattive e dovessero prevalere.

La sentenza della Cassazione
Nel risolvere il contrasto interpretativo, la Corte ha confermato la validità della disciplina della sospensione introdotta dalla legge Orlando, applicabile anche ai reati commessi tra il 3 agosto 2017 e il 31 dicembre 2019. La sospensione, quindi, continua a influire sul decorso della prescrizione, con periodi non superiori a un anno e sei mesi, sia per la motivazione della sentenza di primo grado che per quella di secondo grado, come stabilito dalla legge n. 103/2017.

In relazione al caso specifico, i giudici hanno ritenuto infondati anche i motivi relativi alla penale responsabilità dell’imputato, apprezzando le prove raccolte durante il processo. Hanno sottolineato come i reati contestati fossero già perfezionati con atti diretti alla cattura degli uccelli, senza necessità di un’azione successiva come l’effettiva cattura.

Commento finale
La sentenza della Corte di Cassazione chiarisce in maniera definitiva l’applicazione delle modifiche normative sulla prescrizione, ribadendo l’importanza di considerare le sospensioni previste dalla legge Orlando per i fatti commessi fino al 31 dicembre 2019. Nonostante le modifiche successive apportate dalla legge Bonafede e dalla Riforma Cartabia, il quadro giuridico stabilito dalla legge n. 103/2017 resta applicabile per i reati commessi durante quel periodo, stabilendo così un precedente importante per la gestione delle prescrizioni nei procedimenti penali.


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Diritti di copia nel procedimento penale: forfettizzati anche senza fascicolo informatico

Il Ministero della Giustizia ha fornito nuovi chiarimenti in merito ai diritti di copia nel procedimento penale, stabilendo che, anche in mancanza del fascicolo informatico e del relativo applicativo gestionale, i diritti devono essere pagati secondo il regime forfettizzato introdotto dalla Legge di Bilancio 2025. La normativa prevede il pagamento di una cifra fissa, a prescindere dal numero di pagine, per la trasmissione telematica dei duplicati e delle copie informatiche del procedimento penale.

Il chiarimento arriva con una nota del 5 marzo 2025, in risposta a un quesito posto dalla Corte di Appello di Ancona. La Corte aveva chiesto se, nel caso di indisponibilità del fascicolo informatico, i diritti di copia dovessero essere calcolati secondo il tradizionale sistema basato sul numero di pagine, come previsto dagli articoli 267 e 268 del Testo Unico delle Spese di Giustizia (TUSG).

In base alla nuova normativa, che ha introdotto l’articolo 269 bis nel D.P.R. n. 115/2002, il pagamento dei diritti di copia per la trasmissione telematica di documenti può essere effettuato in due modalità: 25 euro per il riversamento su supporti fisici come USB, DVD o CD, e 8 euro per la trasmissione tramite posta elettronica o portali web. Tuttavia, l’indisponibilità del fascicolo informatico ha sollevato dubbi sull’applicazione di queste tariffe.

Il Ministero ha confermato che, nonostante la mancata attuazione completa del processo penale telematico, il diritto forfettizzato deve essere applicato per le richieste di trasmissione telematica della documentazione. Questo principio vale a prescindere dalla disponibilità del fascicolo informatico, alimentato tramite registri e documenti preesistenti.

Nonostante ciò, la nota precisa che resta pienamente consentito, fino alla piena operatività del fascicolo informatico, il rilascio di copia cartacea, per il quale continua a essere applicato il sistema tradizionale di calcolo dei diritti in base al numero di pagine.


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L’IA, ChatGPT e l’invasione dei meme in stile Studio Ghibli: la polemica sul diritto d’autore

Il rilascio dell’ultimo generatore di immagini di ChatGPT ha preso d’assalto il web, dando vita a una serie di meme in stile Studio Ghibli, il celebre studio giapponese noto per i suoi capolavori d’animazione come Il mio vicino Totoro e La principessa Mononoke. In poche ore, i social network sono stati invasi da repliche di scene famose, tutte riproposte con l’inconfondibile estetica Ghibli. Gli utenti hanno chiamato questo fenomeno “Ghiblification”, un termine che ormai spopola su internet, mentre il dibattito si fa sempre più acceso.

Il trend ha conquistato ogni angolo della rete: dalle rielaborazioni di eventi storici, come l’omicidio Kennedy o gli attentati dell’11 settembre, a momenti sportivi iconici, passando per rappresentazioni di figure politiche come Trump e Zelensky. Non solo i creatori indipendenti, ma anche canali ufficiali – come ambasciate e squadre di calcio – si sono uniti al fenomeno, compreso il CEO di OpenAI, Sam Altman, che ha adattato la sua immagine del profilo su X (ex Twitter) allo stile dell’animazione giapponese.

Tuttavia, il fenomeno ha sollevato una serie di problematiche legate al diritto d’autore e all’etica. OpenAI, la società madre di ChatGPT, si è già trovata al centro di controversie legali per l’uso non autorizzato di materiale protetto da copyright, inclusi casi rilevanti con il New York Times e varie denunce da parte di artisti e editori. Alla domanda su come l’uso dello stile Ghibli possa influenzare la proprietà intellettuale dello studio, OpenAI ha risposto che l’azienda sta perfezionando continuamente il modello per consentire la massima libertà creativa, pur evitando l’uso diretto degli stili di artisti viventi.

“Continuiamo a prevenire le generazioni nello stile dei singoli artisti viventi, ma permettiamo gli stili più ampi, che sono stati utilizzati per generare alcune creazioni originali davvero deliziose e ispirate”, ha dichiarato un portavoce dell’azienda. Tuttavia, la rete non sembra cedere facilmente alla diffusione di questo tipo di contenuti. “E’ un insulto all’arte”, ha commentato uno degli utenti, sottolineando la distanza tra l’emozione autentica di un’opera come quella dello Studio Ghibli e la produzione automatica di immagini.

Anche il leggendario regista dello Studio Ghibli, Hayao Miyazaki, ha espresso forti critiche nei confronti dell’intelligenza artificiale. In un video del 2016, Miyazaki ha dichiarato: “Non vorrei mai incorporare questa tecnologia nel mio lavoro. Sento fortemente che questo è un insulto alla vita stessa”. La sua visione, lontana dall’intento di semplificare la creazione artistica, riflette il valore intrinseco della manualità e della passione che caratterizzano le sue opere.

Le polemiche hanno spinto OpenAI a rivedere alcune delle sue politiche. Secondo le ultime linee guida, infatti, non sarà più possibile trasformare immagini esistenti in ritratti in stile Ghibli. Quando gli utenti tentano di farlo, appare un messaggio che limita la possibilità di creare somiglianze di persone reali. Nonostante ciò, rimane ancora possibile generare immagini completamente nuove in stile Ghibli, continuando a suscitare l’entusiasmo di chi apprezza la libertà creativa, ma anche il malcontento di chi considera la perdita di unicità e significato un danno per l’arte.

In un momento di transizione, OpenAI sta lavorando a stretto contatto con il Congresso degli Stati Uniti per spingere affinché l’uso di contenuti protetti da copyright nell’IA rientri nella dottrina del “fair use”, che potrebbe consentire un uso più libero di materiale protetto per scopi di satira e meme. Intanto, la discussione sulla fusione tra arte tradizionale e intelligenza artificiale resta aperta, con gli utenti e i creatori di contenuti divisi tra l’esaltazione della nuova tecnologia e la difesa della tradizione artistica.

In questo scenario, si pone una domanda cruciale: qual è il futuro delle opere d’arte in un mondo sempre più dominato dalla generazione automatica di immagini? Solo il tempo potrà dare una risposta.


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Google acquisisce Wiz per 32 miliardi: un affare tra innovazione e geopolitica

Alphabet, la società madre di Google, ha ufficializzato l’acquisizione di Wiz, startup israeliana specializzata in sicurezza cloud, per 32 miliardi di dollari. Si tratta della più grande operazione nella storia dell’azienda americana, finalizzata a rafforzare Google Cloud nella competizione con Amazon e Microsoft.

Ma l’accordo non è solo una questione economica: Wiz è nata nel 2020 da un gruppo di ex membri dell’Unità 8200, il reparto d’élite dell’intelligence israeliana noto per il suo ruolo chiave nella cybersecurity e nelle operazioni di sorveglianza digitale. Questo legame ha alimentato il dibattito sull’influenza delle tecnologie militari nel mercato civile e sulle implicazioni etiche della sorveglianza globale.

La startup che ha conquistato le big tech

In soli quattro anni, Wiz si è imposta come un leader della sicurezza cloud, offrendo strumenti avanzati per l’identificazione e la prevenzione delle minacce informatiche. Il suo sistema permette di mappare l’intero ambiente cloud di un’azienda, rilevare vulnerabilità in tempo reale e intervenire prima che i dati siano compromessi.

La sua crescita esponenziale ha attirato l’attenzione di big tech e investitori: nel 2023, Google aveva già tentato un’acquisizione per 23 miliardi di dollari, ma il rischio di violazioni antitrust aveva bloccato l’operazione. Ora, con un’offerta ancora più alta e un contesto di mercato mutato, l’affare è stato chiuso, in attesa dell’approvazione delle autorità di regolamentazione.

Il lato oscuro dell’Unità 8200

Dietro il successo tecnologico di Wiz si cela un aspetto meno noto ma cruciale: il suo legame con l’Unità 8200. Spesso paragonata alla NSA americana, questa divisione delle Forze di Difesa Israeliane è specializzata in cyber-intelligence e sorveglianza. Dall’Unità 8200 sono nati numerosi colossi della cybersecurity, tra cui Check Point, Palo Alto Networks e NSO Group (produttrice dello spyware Pegasus).

L’uso delle tecnologie sviluppate dall’Unità 8200 è stato spesso oggetto di controversie internazionali, soprattutto per la loro applicazione nella sorveglianza dei territori palestinesi. Sistemi come Blue Wolf e Red Wolf identificano i cittadini ai checkpoint tramite riconoscimento facciale, mentre spyware come Pegasus è stato utilizzato per monitorare giornalisti e attivisti.

Queste tecnologie, testate nei territori occupati, vengono poi esportate a livello globale con il marchio “combat-proven”. È il caso del Progetto Nimbus, l’accordo da 1,2 miliardi di dollari tra Israele, Google e Amazon per la gestione dei dati e l’analisi della popolazione palestinese.

Un accordo tra affari e geopolitica

L’acquisizione di Wiz da parte di Google non è solo un’operazione commerciale, ma solleva interrogativi più ampi sul rapporto tra big tech e sicurezza globale. Se da un lato il colosso di Mountain View rafforza la sua presenza nel cloud, dall’altro emerge il rischio di una crescente commistione tra tecnologie private e strategie di sorveglianza statale.

Le organizzazioni per i diritti umani denunciano da tempo l’utilizzo della cybersecurity per il controllo e la repressione. E mentre Google si appresta a integrare Wiz nei suoi sistemi, il dibattito su privacy, libertà e sicurezza nel mondo digitale si fa sempre più acceso.


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Con l’ordinanza n. 13085/2024, le Sezioni Unite riconoscono la giurisdizione del giudice ordinario nell’azione intentata da Greenpeace e ReCommon contro ENI, MEF e CDP. È…

Separazione delle carriere: Caiazza contro Gratteri, “Gravi falsità in TV”

Gratteri aveva affermato che l’obiettivo della separazione delle carriere tra magistratura giudicante e requirente sarebbe quello di sottoporre la magistratura al potere esecutivo.

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